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Un sacerdote incontr? un giorno un maestro zen e, volendo metterlo in imbarazzo, gli domand?: "Senza parole e senza silenzio, sai dirmi che cos'è la realtà?" Il maestro gli diede un pugno in faccia.






25/09/2003

 
Il tifoso non serve più al pallone

di Lanfranco Caminiti

Ecco, finalmente è accaduto. La guerra tra tifoserie, lo scontro con le forze dell'ordine ha conquistato il posto cui ambisce da sempre: il campo di "gioco". Dai margini dello sguardo, dalla periferia dell'interesse, dagli spalti, da dietro le protezioni in acciaio e plexiglass, dalle stazioni di servizio saccheggiate di corsa, dagli autobus incolonnati e marcati stretti, dalle piazzole antistanti lo stadio, dalla coda della notizia sportiva, l'ultrà è finalmente al centro, il rettangolo verde della sfida. Il giovane con il passamontagna che, dopo aver inseguito e menato carabinieri e poliziotti, si rivolge verso le scalinate battendo le mani, incitando una ola, un accrescere dell'entusiasmo, uno sventolar di bandiere e striscioni è il "nuovo gladiatore": sta al posto proprio, il centro del campo, nuovo "colosseo" domenicale. Se potesse, forse solleverebbe per i capelli la testa del suo "nemico" e chiederebbe al pubblico cosa farne, mozzarla o risparmiarla. Se potesse. E gli risponderebbero: sbirri bastardi. Come si scrive sui muri, sui volantini, sui siti internet delle tifoserie. Pollice verso. Ciro, marittimo di 21 anni, di Casavatore, Napoli, è il nuovo Masaniello, il nuovo sanfedista di piazza del Mercato, il nuovo "nemico pubblico numero uno". Ciro, marittimo, Casavatore, 21 anni. Già. Il resto - il calcio - non conta più niente, è altrove.
Già, ma che è calcio, questo?
D'altronde, chi sono ormai gli unici, i veri "portatori" della squadra, dell'appartenenza, della passione cieca e militante? I calciatori sono dei mercenari, giocano in una squadra verso cui non hanno affetti, se ne vanno quando l'offerta è migliore; i presidenti comprano squadre come catene di supermercati, vendono, spostano, il business è tutto; gli staff tecnici, manager e sportivi, vanno dove è più conveniente; i procuratori gestiscono tutto in un vortice di cifre e di potere pazzesco: ma che è calcio, questo?
Chi rimane legato per sempre ai "colori"? Loro, gli ultras, combattenti d'un mondo che non c'è più, combattenti d'un mondo che vuole resistere, giapponesi di un imperatore che ha già firmato l'armistizio, finalmente unici depositari della bandiera, della maglia: il resto conta meno di niente. Come operai di una fabbrica metalmeccanica che ha già dislocato la produzione o ha deciso che conviene di più diventare una finanziaria, e occupano gli stabilimenti e si incatenano alle presse, e fanno manifestazioni e a botte con la polizia, si sdraiano sui binari: a volte, ci scappa il morto, di qua o di là. Poveri morti, per nulla. Ora, sono al centro del campo, il posto che gli spetta, che gli compete. Che si sono guadagnato.
Quanto più diventa "per bene" il mondo del tifo, negli studi televisivi, dove si fanno le battutine e i giochini, si è tutti, in fondo, compagnoni, ci sono le veline e tutto si stempera, tanto più diventa "per male", "delinguente" il mondo degli ultras. Agli uni, ai per bene, il mondo virtuale, fatto di telecamere a strafottere, moviole, sciocche ripetizioni delle partite e delle azioni di gioco [ma che è calcio, questo?], agli altri, il sangue e il sudore che è proprio dello sport. Non c'è il pallone? E chi se ne frega? Rimane il sangue e il sudore. La distanza siderale tra il calcio - l'organizzazione del gioco del calcio - e la passione sportiva s'è ormai consumata tutta. Non nello stadio di Avellino-Napoli, ma già prima: l'inferocirsi dei comportamenti ultras è solo la manifestazione più evidente di questa distanza. Tanto più perché espressa in nome di una passione ormai "antica", superata, il rapporto "carnale" tra squadra e tifoso. Questo rapporto carnale s'è ormai consumato tutto in nome della virtualità, del gioco televisivo, delle chiacchiere, del satellite, degli spot pubblicitari, dello schermo: lo stadio è solo una necessità. Il tifoso è un residuo - meglio starebbe a casa, in una poltroncina - e non una necessità.
E' evidente, per il tifoso, la percezione di questo passaggio: la sua è una tragica e disperata battaglia. Proprio nel senso d'una battaglia. Già persa, già giocata senza che neppure potesse fare alcunché. Non si adegua, non può adeguarsi a non contare nulla: si è sempre illuso, è stato illuso, nel mondo "antico" che la sua passione contasse, quando si andava fuori per pareggiare, se andava bene, e si giocava in casa per vincere, sospinti dall'amore dei tifosi, dagli incitamenti, dalle urla, dalla "pressione" su arbitri e avversari. Oggi, se vuoi andare avanti devi giocare ovunque allo stesso modo, i 2 sulla schedina aumentano, non solo in Champions league, ma pure tra le partite di C2: il fattore-campo era forse una realtà, adesso è solo un ricordo.
Le squadre diventeranno delle "All Stars", come le merengue del Real Madrid: fanno tic-toc-tic-toc, fanno il torello, fanno melina, fanno belle azioni, triangolazioni da manuale, i fondamentali come negli allenamenti, non mettono mai la gamba, sembrano i "globetrotters" del basket di tanti anni fa, i migliori giocatori del mondo che facevano quel che volevano con la palla: poi, bastava una squadretta a fargli il culo, mettendoci sangue e sudore. La gente forse si diverte: quelli per bene, sì, e sono la maggioranza, la stragrande maggioranza, sono come quelli che stanno davanti la televisione, e poi, infatti, che ci vai a fare allo stadio, che si vede pure male? Forse l'ideale è dotare ogni poltroncina allo stadio di una televisione, come si fa nelle trasmissioni. Ma il calcio è questo ormai, televisione, tic-toc-tic-toc: dovranno trovare sempre più tempi morti per gli spot - come per il football americano, si potrebbe fare per ogni squadra un tempo in difesa e un tempo in attacco e poi chiamare il time-out come per la pallavolo - e anche per la ricostruzione in 3D in tempo quasi reale, oppure in carne e ossa in tempo quasi-reale. Ma che è calcio, questo?
Il calcio è l'unico "luogo" rimasto dove si accendono ancora le passioni civili, dove si è faziosi di padre in figlio, dove si disprezza l'avversario a prescindere, dove qualsiasi cosa faccia o dica il "nemico" è contro di te, un complotto planetario di cui si è vittime innocenti, dove ci sono i "padroni", dove i "comunisti ancora mangiano i bambini" e i "democristi vincono perché ci sono i preti e le monache", dove ci sono ancora le "sezioni", che attraversa classi, età, generi, composizione sociale, paesini e metropoli. Il calcio è perennemente fermo al clima civile del 1948, e i giornali sembrano fermi al 1948 e i loro titoloni pure. Tutta fuffa, tutto vuoto spinto, tutto "ideologia". E ci si meraviglia che intervenga il governo? Lo scollamento, la distanza, il fossato tra paese reale e paese virtuale qui è forte, come altrove. L'irruzione dei corpi reali, dell'"inveramento" dell'ideologia in scontri e battaglie da parte dei tifosi è una scocciatura, una deformazione, un fastidio: che si tolgano di mezzo, via i "delinguenti", ma che, non hanno capito che la "democrazia" è un'altra cosa, che è finita la "guerra civile" e questa è solo ammoina?
Sta succedendo al mondo del pallone italiano, europeo, quello che è successo al baseball americano con l'irruzione massiccia della televisione tanti e tanti anni fa: quello d'oggi è un "altro" gioco. E il rimpianto per "quel" baseball diventa il rimpianto per un'America che non c'è più, per un mondo che non c'è più, foto bianco e nero, the hall of fame, campioni e divine - volete mettere Marilyn con una velina? Tutto passa, certo. Ma il rimpianto rimane, il lutto rimane: c'è chi lo elabora in libri, in film, in pensieri. Anche belli, anche profondi. E c'è chi mena le mani.
Chiudere gli stadi? E magari alcuni trasformarli in fortezze dove infilare extracomunitari e immigrati, indesiderabili, e massacrarli, come accadde a Bari? E a che servirebbe? Come se gli ultras non macinassero giorno per giorno modi e mezzi per scontrarsi con i loro nemici, a prescindere dalla partita, per vendicarsi di qualcosa che nessuno ricorda più come è cominciata, ma che importa, è proprio così che va. Come se già adesso la maggior parte degli incidenti non accadessero già "fuori", spesso lontano, spesso in luoghi che nulla c'entrano. Invece che luoghi deputati avremmo una guerra diffusa: è già accaduto, si moltiplicherà. Forse servirebbe davvero a quelli che il calcio lo comandano, lo organizzano, lo gestiscono. E' questo che in fondo è terribile: che il terremoto provocato dagli ultras servirà proprio a quelli che loro odiano di più, a quelli che il calcio se lo sono comprato e l'hanno fato diventare un'altra cosa. A quelli che fanno le schedine con tredici partite virtuali su quattordici. Gli stadi si trasformeranno in luoghi del merchandising, bar, vendite di magliette e gadget, spettacolini, ragazzette carine con contratti atipici di lavoro, poveracci travestiti da mascotte per sbarcare il lunario, schermi a riproporre questa o quella partita per l'ennesima volta, piccole disneyland del calcio, dove finalmente portare i bambini tranquilli, come a casa. Vuoti, tutti uguali. Tutto asettico. Tic-toc-tic-toc. Il calcio deve diventare ordinato, come tutto deve avere un "nuovo ordine".
Che tristezza. Ma che è calcio, questo?


 

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