mono no aware

 

 

Hobo's log

Un sacerdote incontr? un giorno un maestro zen e, volendo metterlo in imbarazzo, gli domand?: "Senza parole e senza silenzio, sai dirmi che cos'è la realtà?" Il maestro gli diede un pugno in faccia.






28/03/2003

 
L'assalto finale parte dall'Italia
di Alessandro Mantovani

Partono per la guerra da casa nostra, dalla caserma Ederle di Vicenza, anche se il ministro degli esteri Franco Frattini dice di non saperne nulla. E non sono soldati qualsiasi, sono i milleottocento paracadutisti della 173a brigata aviotrasportata dell'esercito statunitense, unità tristemente nota ai tempi del Vietnam per i massacri di contadini e vitcong nelle risaie di Katum. Gli specialisti dell'assalto dal cielo sono destinati al nord dell'Iraq, dove già operano di corpi speciali ma le forze d'assalto anglo-americane arriveranno in aereo perché la Turchia non ha concesso il passaggio via terra. In due giorni al massimo, secondo fonti del Pentagono, dovrebbero essere lì. Fonti militari Usa citate dal Washington post aggiungono che i parà della 173a scenderanno elicotteri da assalto insieme a unità della 101a divisione, oggi in Kuwait. Loro compito sarà fronteggiare le postazioni fortificate irachene e aprire passaggi strategici per altri reparti, che poi controlleranno il territorio. Potrebbero prendere parte anche all'assalto finale a Baghdad, dove si prevedono le maggiori resistenze. E stanno lasciando proprio in questi giorni la base vicentina, dalla quale due settimane fa erano partiti camion e altri mezzi blindati sui treni armati che giravano per l'Italia nonostante i blocchi pacifisti. Centinaia di parà sarebbero già partiti (secondo fonti locali per la Giordania) e almeno 800 sarebbero ancora lì, pronti a trasferirsi in un aeroporto (forse Aviano) dal quale decollare verso l'Iraq, oppure in qualche base in Germania come fecero l'anno scorso per andare Afghanistan. La caserma Ederle è la loro casa dal 2000, quando la 173a, sciolta nel `72, è stata riattivata e sistemata in Italia nell'ambito della Task force per il sud Europa (Setaf), orientata verso il Mediterraneo, il Nordafrica e il Medioriente (v. Manlio Dinucci sul manifesto del 28 u.s.). Ieri mattina i responsabili della caserma Ederle non hanno potuto nascondere i preparativi in corso ai parlamentari di Ulivo e Rifondazione che si erano presentati per una delle visite ispettive alle istallazioni militari Usa. C'erano Paolo Cento (Verdi), Elettra Deiana (Prc) e le onorevoli venete Lalla Trupia (Ds), Tiziana Valpiana (Prc) e Luana Zanella (Verdi). Racconta Deiana: «Dopo il briefing con gli ufficiali, che continuavano a dire di non poterci rispondere perché si tratterebbe di informazioni riservate, siamo passati con il pullmino davanti agli alloggi dei paracadutisti e lì abbiamo visto mucchi di valige, zaini e sacchi proprio sugli ingressi, e i soldati lì vicino. Allora abbiamo chiesto: `Stanno partendo? E dove vanno?'». Per saperlo c'è voluto un po'. Il comandante italiano colonnello Salvatore Borgonero è stato invitato a contattare il ministero, a Roma, per l'autorizzazione a rispondere, poi ha spiegato che sì, stanno partendo, ma «per esercitazioni». Più tardi il colonnello americano Thomas Collins ha detto che gli uomini sono ancora a Vicenza.
Difficile non fare due più due. Non c'è dubbio che la 173a sia destinata all'Iraq; e a Vicenza i deputati verificano che quei soldati stanno andando via. «Significa che dall'Italia partono truppe destinate alla guerra in Iraq - osservano Deiana e Cento di ritorno a Roma - e neanche la maggioranza di destra, al di là della violazione dell'articolo 11 della costituzione, l'ha mai autorizzato». Nella mozione approvata si richiamavano infatti le dichiarazioni di Silvio Berlusconi: «Non partirà nessun attacco all'Iraq da aerei che partono da basi italiane». Ma un aereo che sgancia paracadutisti attacca o no? «In un certo senso sì - ammettono al ministero della difesa - però la 173a brigata aviotrasportata, sempre che sia destinata all'Iraq, si dirigerà senz'altro altrove, partirà cioè da un paese terzo, non dall'Italia». Basta poco, insomma, per aggirare costituzione e mozione. Sconcertante Franco Frattini, titolare della Farnesina: «Non siamo uno stato belligerante e non sappiamo nulla di operazioni militari. L'Italia non deve essere informata, sentiamo la Cnn come voi», ha detto ai giornalisti. Alle opposizioni non basta, specie da uno che faceva il ministro dei servizi segreti fino a pochi mesi fa. Insiste Cento: «La 173a brigata è o sarà impegnata direttamente in operazioni belliche in Iraq. Berlusconi ha mentito sul coinvolgimento delle basi in Italia e deve risponderne al parlamento».


28.3.03

27/03/2003

 
Non è che l'inizio
di Luigi Pintor

La disinformàzia ci stordisce in questa guerra non meno delle bombe. La grande menzogna dell'invasione e della colonizzazione di un paese nel nome della libertà è anche intrisa di bugie quotidiane. Un giorno dicono che è questione di ore e il giorno dopo che durerà più del previsto, Assicurano che risparmierà le popolazioni ma battezzano la bella impresa colpisci e uccidi come non farebbe la più fanatica delle sette fondamentaliste. Finora abbiamo visto e saputo solo di una piccola parte dei bombardamenti in grande stile ma ignoriamo cos'è successo nelle città minori. Ci rallegriamo che i morti siano pochi (la morte altrui è sempre relativa) e che non ci sia una devastazione (è già un territorio di proprietà statunitense). Come finisce la vedremo a Baghdad.
Un pilota reduce dai bombardamenti della capitale si è spaventato da sé e ha detto che mai avrebbe voluto essere là sotto dove piombavano i suoi ordigni. Una bella immagine. La nostra stampa e le nostre televisioni che non sono belligeranti ma cortigiane non hanno la stessa sensibilità, usano lo stesso linguaggio e lo stesso tono dei resoconti sportivi senza neppure la professionalità e l'emotività che merita una partita di calcio.
Tanto si sa che in questo western ultramoderno vincerà il settimo cavalleggeri del generale Custer (che ai suoi tempi perse però senza onore contro le frecce indiane). Le lucciole della contraerea irachena sono ancora più innocue delle fionde vietnamite. Tutto ciò serve a sdrammatizzare il fatto che questa invasione imperiale di un piccolo paese è l'antipasto di un banchetto funebre che mette a rischio le sorti dell'umanità. Nel nostro mondo laico, la sola autorità morale che si esprima in questo modo adeguato è un papa.
Ma Saddam è vivo o morto o ferito e il suo regime controlla ancora in qualche modo il paese o si appresta alla resa? L'onnipotente ministro americano della difesa preventiva dice di non saperlo ma non è credibile. Viene perfino il sospetto che i falchi più artigliati preferiscano infierire quanto basta piuttosto che trionfare fulminei, se lo scopo principale è terrorizzare. Se invece ci sarà a Baghdad una resistenza impari ma rilevante allora vorrebbe dire che forse quel regime non era così debole e infetto e avversato e soprattutto vorrebbe dire che dobbiamo aspettarci un massacro.
Non sappiamo se le popolazioni accolgano e accoglieranno festose i vincitori. E' possibile, non solo perché oppresse ma perché stremate da dieci anni di embargo e privazioni di ogni genere. Tuttavia una resistenza militare c'è stata, tanto più meritevole quanto più disperata, che la disinformàzia e un pregiudiziale disprezzo non prevedevano. E smettetela di mettere in ridicolo i soldati che si arrendono come tutti i soldati dopo aver combattuto.
Spesso le vittorie cancellano tutto il resto e si volta pagina. Ma spesso le vittorie sono mutilate e di sicuro dopo questa guerra non si volterà nessuna pagina ma si aprirà un lungo libro. Non sarà scritto in anglo-americano ma in molte lingue, il primo capitolo è già stato aperto da quell'altra superpotenza pacifica che ogni giorno continua a manifestare per le strade del mondo e che peserà dopo la guerra molto più di 3000 bombe. Ne fanno parte anche i centomila newyorchesi che reclamano il diritto dell'uomo alla felicità scritto nella carta fondativa del loro paese.

27.3.03

23/03/2003

 
La Notte del Destino
di Younis Tawfik, scrittore iracheno

Nei varchi tra la notte
e l'impossibile,
sotto un velo di neve,
ti ho inteso gridare le forme delle piaghe
e nella tenda del silenzio soffrivi l'eco:
condividevi il terrore con in tuo assassino,
aprivi il petto al vento,
mettevi catene alla passione
e per il pianto...
E' la Notte del Destino,
perciò strappati il manto della sopportazione,
e sacrifica gli occhi ai numi della guerra,
finché le tue visioni non verran meno...
E' notte di ghiaccio
ed è di fuoco,
è notte
che gli specchi del cielo vedono
infrangersi
...e ne scendono lune,
come fossero pioggia di pietra...
Fisso così il tuo nome
ed il tuo volto,
fisso la morte finché arriva il giorno.
Ma intanto, tu
spartisci il mio tormento e poi scompari,
ti trasformi in miraggio dell'infanzia,
penetri nel segreto del deserto
e il tuo cuore fiorisce sulla sabbia,
simile a un girasole, un canto funebre.
Intanto, tu
diventi il riso di bambino che la vita ha ucciso
e in questa notte rinasce, quando
Dio scende, plenilunio triste,
sopra i due fiumi,
e sugli schieramenti delle palme.



23.3.03

22/03/2003

 
La guerra è un massacro
un editoriale di Carta

Abbiamo potuto vedere in diretta le enormi esplosioni che, venerdì sera, hanno dissipato ogni dubbio. La guerra non è una maniera un po' più rumorosa di eliminare fisicamente un avversario, per esempio Saddam Hussein. La guerra è un massacro. Chissà se sapremo mai quante persone sono state uccise, arse vive o fatte a pezzi, nelle decine di palazzi in fiamme. E nelle decine di palazzi colpiti sabato, domenica, nei giorni successivi. La guerra non è nemmeno una carica gloriosa di cavalleria. Il Settimo Cavalleggeri (ricordate il generale Custer?) è stato bloccato, non sappiamo per quanto né soprattutto come e a quale prezzo in vite umane, dalle artiglierie e dai carri armati iracheni. Bush e Blair lasciavano intendere che la guerra sarebbe stata rapida, con poche perdite: di militari anglo-americani e di civili. Ora dicono che sarà lunga, e sanguinosa.
Ma se anche avessero avuto ragione, e tra poche ore il regime iracheno crollasse, e il suo esercito si arrendesse in blocco, e i turchi non entrassero nella regione kurda del nord, e i pozzi di petrolio non fossero, come molti già sono, in fiamme, anche se non saranno centinaia di migliaia le persone private della loro casa e costrette a fuggire, anche se tutto andasse nel migliore dei modi, per i signori occidentali della guerra, questo non toglierebbe che la guerra è un crimine. E soprattutto che non è un modo possibile di governo del mondo, della sua infinita complessità, delle sue diseguaglianze. Il mondo si può governare solo con la nonviolenza, il dialogo, la giustizia sociale.
Di questo sono testimoni attivi i milioni che sabato si sono dati appuntamento in tutte le piazze del mondo (guardate la pagina dei link internazionali su questo sito: è impressionante, per quantità e varietà) e del nostro paese. Non si tratta solo di dire no alla guerra, si tratta di fare, qui, ora, l'"altro mondo possibile". In cui, ad esempio, non vi siano mostri che divorano il territorio, inquinandolo di violenza e di pericoli, come la base di Sigonella, in Sicilia, e di Aviano, all'altro capo della penisola. E anche lì, domenica, a decine di migliaia di sono dati appuntamento.
Le donne, gli uomini, i bambini, gli anziani di Baghdad e di molti altri luoghi torturati dalla guerra hanno bisogno che l'altro mondo si materializzi il più presto possibile.

22.3.03

06/03/2003

 
La guerra del Presidente
racconto di Pierangelo Rosati

"Non possiamo restare fermi a far nulla mentre il pericolo aumenta", urlava al microfono il Presidente, facendo sobbalzare sulle sedie tutti i membri dell'Assemblea.
L'aula del Palazzo di Vetro era al completo. Tutte le delegazioni degli stati membri delle Nazioni Unite erano nervose ed eccitate dal tanto atteso discorso del Presidente. Rappresentava, certo, soltanto uno dei tanti stati membri, ma in quel momento politico, sull'orlo di una ennesima guerra, era la voce più importante da ascoltare.
"Le risoluzioni del Consiglio di sicurezza saranno fatte rispettare. Le giuste richieste di pace e sicurezza saranno soddisfatte o un'azione sarà inevitabile. E un regime che ha perso la sua legittimità perderà anche il potere". Il delegato russo annuiva sornione, ascoltando la voce del traduttore in cuffia e pensando agli innegabili vantaggi che il suo governo avrebbe potuto trarre da quella guerra. L'ambasciatore georgiano lo guardava con ostilità e preoccupazione.
"Siamo stati più che pazienti. Abbiamo provato con le sanzioni. Abbiamo provato la carota del 'petrolio contro cibo' e il bastone degli attacchi aerei. Ma hanno continuato nonostante tutto ciò", continuava il Presidente dalla sua tribuna, "sono ormai troppi anni che costruiscono e sperimentano ordigni nucleari e armi chimiche e batteriologiche dietro il velo della segretezza, rifiutandosi di aderire a qualunque trattato internazionale. Le giuste richieste di pace e di sicurezza devono essere soddisfatte, o l'azione sarà inevitabile. La pace mondiale è a rischio e dobbiamo porre fine a questa minaccia, anche in nome delle migliaia di persone inermi vittime delle stragi causate dai loro folli e insensati raid aerei, giunti come un fulmine a ciel sereno a spezzare vite umane e minare le basi della coesistenza pacifica. Questo è esattamente il tipo di aggressiva minaccia per affrontare la quale l'Onu è nato".
I primi applausi cominciavano a levarsi dall'aula, mentre, con crescente impeto e malcelata retorica il Presidente concludeva: "Non possiamo non fare nulla mentre il pericolo s'annuncia. Dobbiamo batterci per la nostra sicurezza e per i diritti e le speranze permanenti dell'umanità. E' un simbolo del nostro impegno per la dignità umana. L'organizzazione delle Nazioni Unite è stata riformata e l'Iraq parteciperà appieno alla sua missione di portare avanti la tutela dei diritti umani, la tolleranza e l'apprendimento".
Fra le ovazioni di due terzi dell'Assemblea e il sorriso imbarazzato del Segretario Generale che si accingeva a prendere la parola, Saddam Hussein scese dal podio lanciando un'ultima occhiata di sfida verso i banchi degli Stati Uniti.


 

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