da Carmilla n.3, dicembre 2000

Piccoli lillipuziani crescono

di Pierangelo "Hobo" Rosati

Con forte accelerazione e inesorabile progressione, nel corso degli ultimi anni, termini come Neoliberismo, Globalizzazione, New Economy, sono entrati a far parte del nostro vocabolario quotidiano. Il mondo, da tempo orfano della società industriale, sta riorganizzandosi in strutture nuove, che ogni giorno assumono forme più definite per costituire il modello della società da venire.

Piccole grandi novità, apparentemente slegate, avanzamenti tecnologici, ristrutturazioni produttive, crescite finanziarie, mutazioni del mercato, nuovi comportamenti sociali, rappresentano i fattori visibili, in continuo movimento, dell'affermazione di un nuovo paradigma di pensiero interamente basato sulla rete.
I computer, la telematica, la velocità di comunicazione, sono gli strumenti che, pur non avendo ancora realizzato il villaggio globale, hanno già reso possibile la creazione del mercato globale. Questo spiega l'accezione negativa che molti danno alla parola "globalizzazione": non un'auspicabile condizione di vicinanza universale, bensì uno stato di sfruttamento su scala planetaria.
"Un'economia globale senza regole costringe lavoratori, comunità e stati a mettersi in competizione tra loro per attrarre gli investimenti, in modo tale che ciascuno si sforzi di portare il costo del lavoro, le spese sociali e ambientali al di sotto di quelle altrui. Ne consegue un livellamento verso il basso, una disastrosa corsa verso il fondo nel corso della quale le condizioni generali tendono a scendere verso il livello dei più poveri e dei più disperati" spiegano Jeremy Brecher e Tim Costello nel loro saggio "Contro il capitale globale"1, valutando ed esaminando le catastrofi economiche, sociali ed ecologiche già perpetrate negli ultimi anni attraverso i meccanismi di globalizzazione da parte di grandi e medie imprese e istituzioni sovranazionali come il Fondo Monetario Internazionale, il World Trade Organization e la Banca Mondiale.
Brecher e Costello focalizzano la loro attenzione sull'ambito sindacale, ma probabilmente, l'aspetto che segnerà maggiormente il passaggio epocale cui stiamo assistendo, riguarda la trasformazione dello stesso concetto di proprietà privata in quello di accesso all'informazione.
Jeremy Rifkin, nel suo "L'era dell'accesso"2, descrive dettagliatamente questo processo che, a partire dalle dinamiche post-fordiste della produzione "just in time"3 e della centralità della produzione di beni immateriali, si sviluppa tendenzialmente in un ruolo fortemente preponderante dell'accesso alle reti di comunicazione. Laddove, grazie alla possibilità di relazionarsi globalmente in tempo reale, il possesso e l'accumulazione di merci diventa obsoleto quando non antieconomico, il capitale reale è misurato in termini di possibilità di accedere alle reti di comunicazione; alla proprietà si preferiscono il leasing o altri metodi di affitto o gestione dei mezzi di produzione e delle risorse; agli impianti stabili sul territorio si preferiscono metodologie di produzione diffusa in una galassia variegata di piccoli produttori sparsi nei luoghi più appropriati - cioè economicamente più convenienti - del mondo globalizzato. Avere diventa un onere, quando il sistema di relazioni in rete può determinare un'economia più vantaggiosa. "In un'economia delle reti, è più facile che sia negoziato l'accesso a una proprietà fisica o intellettuale, piuttosto che venga scambiata la proprietà stessa. Così, nel processo economico, la proprietà del capitale fisico - un tempo fondamento della società industriale - diventa sempre meno rilevante. Anzi, è probabile che sia considerata dalle aziende un mero costo operativo più che un patrimonio; qualcosa da prendere a prestito più che da possedere"4.
Come è facile intuire, tutto ciò non implica affatto la realizzazione del sogno marxista di abolizione della proprietà privata; per esserne certi basti considerare il fatto che, in questa logica, anche la forza-lavoro, in quanto parte della composizione economica del capitale, subisce lo stesso trattamento di dismissione della proprietà: perché assumere forza-lavoro quando è molto più conveniente affittarla o utilizzarla in reti flessibili di subappalti? Lo sfruttamento rimane ed è intensificato dall'annullamento dei limiti geografici e dalla trasformazione dei lavoratori dipendenti in lavoratori autonomi che, lungi dall'avere con la grande impresa un rapporto inter pares, sono portati all'autosfruttamento, oltre ad aver rinunciato alle classiche garanzie sindacali.
Questa dunque è la globalizzazione del capitale, su cui si fonda la New Economy: saccheggio delle risorse planetarie, livellamento verso il basso e flessibilità del lavoro, che si traduce in precarietà del reddito. A questo va aggiunto un ulteriore importante dato: la completa mercificazione della vita umana, in ogni sua fase, in ogni suo aspetto; il realizzarsi di quella condizione che Marx definiva di "sussunzione reale". Scrive Rifkin: "la trasformazione dal capitalismo industriale al capitalismo culturale sta già mettendo in discussione molti degli assunti condivisi su ciò che costituisce una società. Le vecchie istituzioni, fondate su rapporti proprietari, scambi di mercato e accumulazione materiale, vengono lentamente sradicate per lasciare spazio a una società in cui la cultura diventa la più importante risorsa economica, il tempo e l'attenzione i possedimenti più preziosi, e la vita di ciascuno la punta più avanzata del mercato"5.
Per rendersene conto, basta considerare la apparentemente sproporzionata crescita economica di alcune imprese cosiddette hi-tech, la cui valorizzazione è fondata sulla capacità di attrarre l'attenzione degli utenti. Dalle più tradizionali industrie dei media e della pubblicità, ai nuovissimi portali di Internet, 6 l'economia approfitta dell'intera vita trasformandola in un'esperienza a pagamento. Certamente i "portali", icone emblematiche della New Economy, sono i discendenti diretti - e possono ereditarne il ruolo - dei passages di Parigi, assunti a simbolo da Walter Benjamin 7 per studiare ed analizzare la modernità attraverso la storia e la cultura del XIX secolo, concretizzata nell'immagine fisica delle gallerie commerciali parigine: "ora, il postmoderno è definito dalla logica di produzione della relazione, dal valore come relazione e linguaggio. Alla fabbrica, com'è noto, s'è sostituito il computer: Benjamin lo intuiva, scavava la merce-città per scoprire la merce-relazione-servizio"8. Sono infatti la cultura e il linguaggio stessi ad entrare nella sfera produttiva, a essere "messi al lavoro" e a realizzare quasi magicamente "ciò che la politica monetarista voleva raggiungere: la crescita senza inflazione"9, rubando la scena ai residui dello stato keynesiano con un meccanismo di autoalimentazione fra domanda e crescita economica. Il dubbio resta su quanto sia effettivamente governabile questa domanda.
In questo quadro è normale che molti abbiano cominciato ad associare al termine "globalizzazione" un senso di vertigine e smarrimento, quando non di timore. Mentre politicanti e membri dei vari consigli di amministrazione teorizzano i vantaggi del villaggio globale, ai normali cittadini restano aspettative irrisolte, bisogni concreti e l'incubo di un futuro incerto, che si concretizzano troppo spesso in rifiuto in toto di ogni aspetto della globalizzazione e in una chiusura comunicativa che sfocia nel localismo, anche più estremo, fino al micronazionalismo su cui si reggono le politiche di Haider in Austria, come di Milosevic in Serbia e di tutti i vari leader di un dilagante neo-populismo.
Secondo i risultati di un sondaggio del 1997 effettuato dalla rivista Limes, Il 68% dei cittadini del Nord reputa l'economia della propria regione fortemente influenzata dal contesto internazionale, mentre il 58%, un dato inferiore ma comunque molto elevato, è sicuro che gli effetti degli avvenimenti a livello mondiale influenzino anche la politica della propria regione. "Il processo di globalizzazione sembra essere pienamente percepito, almeno dalla maggior parte dei cittadini del Nord. È però interessante notare come l'elevato grado di rilevanza attribuito agli avvenimenti internazionali dagli abitanti del Nord-Italia si associ, da un lato, ad un alto grado di sfiducia nello Stato e nelle sue istituzioni e, dall'altro, ad una forte domanda di autoritarismo e di federalismo. La globalizzazione genera dunque incertezza e disorientamento, spingendo gli individui, soprattutto quelli che non ne hanno una conoscenza diretta, al radicamento territoriale e alla domanda di identità e di potere locale"10.
Ma l'opposizione a questo modello di globalizzazione ha cominciato, per fortuna, ad assumere anche nuove e diverse connotazioni, legate a considerazioni più razionali del fenomeno. Un movimento di stampo assolutamente nuovo, la cui forza maggiore sta proprio nell'aver compreso a fondo i termini della questione e nell'adeguatezza dei metodi e degli strumenti utilizzati. Il "popolo di Seattle", che è riuscito a far miseramente fallire i lavori dell'ultimo vertice mondiale della World Trade Organization, si è autoconvocato a manifestare la propria opposizione nelle strade e nelle piazze usando i tempi e i modi della cosiddetta "impresa in rete", sfruttandone tutta l'efficienza e ribaltandone il significato in un meccanismo che va ben oltre la speculare simmetria, verso la costruzione di una rete di soggettività solidali, che lancia un forte segnale di speranza per il futuro.
"Gli uomini del ventunesimo secolo probabilmente percepiranno se stessi come nodi integrati di una rete di interessi condivisi, così come oggi si percepiscono agenti autonomi in un mondo darwiniano di competizione per la sopravvivenza. Per loro la libertà personale avrà poco a che fare con il diritto di possedere e di escludere gli altri dal possesso, e molto con il diritto di essere inclusi in una rete di relazioni reciproche. Saranno loro la prima generazione dell'era dell'accesso. (...) Stanno crescendo in un mondo di reti e connessioni in cui le nozioni contrapposte di mio e di tuo, così caratteristiche dell'economia di mercato fondata sullo scambio di proprietà, hanno lasciato il posto a strumenti più interdipendenti e integrati di percezione della realtà: strumenti più cooperativi che competitivi, più legati alla concezione dei sistemi che alla ricerca del consenso"11.
Seattle è stata l'inizio, ma il suo stile, questa nuova percezione delle dinamiche globali nella società dell'accesso, ha accompagnato e accompagnano tuttora numerosi eventi del genere in tutto il mondo: dalla rivolta di Washington al primo maggio a Londra, dal MobiliTebio a Genova al NoOcse di Bologna, invadendo i luoghi in cui si decidono le sorti del mondo e si decreta l'esclusione sociale ed economica di interi settori dell'umanità con la presenza e la determinazione di quella società civile, composta da persone e gruppi piccoli ma cooperanti e solidali per sconfiggere, in una sorta di "strategia lillipuziana", i giganti dell'economia. In Italia questa aggregazione spontanea e apparentemente caotica di soggetti, eppure organizzata in un sistema sinergico di fasci nervosi e di sinapsi su diversi livelli territoriali, si è data appunto il nome di "rete di Lilliput", e conta le adesioni di diverse migliaia di individui, gruppi, associazioni, cooperative di volontariato, sindacati di base e centri sociali. La relazione "di rete" non consiste solo nel coordinamento di iniziative o nella comunicazione, ma anche e soprattutto nella messa a disposizione o nella condivisione, ciascuno per la propria parte, di risorse umane, attrezzature, competenze e professionalità per lo sviluppo collettivo e il raggiungimento degli obiettivi comuni. Il tutto salvando ogni principio di identità individuale, senza dover cedere i propri princìpi, né sottoscrivere tessere o ideologie. Scrivono Brecher e Costello: "nella favola satirica I viaggi di Gulliver, di Jonathan Swift, i minuscoli lillipuziani, alti appena qualche centimetro, catturavano Gulliver il predone, di tante volte più grande di loro, legandolo nel sonno con centinaia di fili. (...) Di fronte alle soverchianti forze e istituzioni globali la gente può, in modo analogo, utilizzare le fonti di potere relativamente modeste che ha in mano e combinarle con quelle, spesso abbastanza differenti, in possesso di altri partecipanti ad altri movimenti e in altri luoghi. (...) In un certo senso la strategia lillipuziana è speculare alle nuove strategie delle grandi imprese globali. Così come la strategia di queste imprese crea reti mondiali di produzione che collegano aziende separate, la strategia lillipuziana immagina forti organizzazioni di base locali inserite in una rete di aiuto reciproco e di alleanze strategiche con movimenti analoghi in tutto il mondo, e così come la strategia delle corporation si sforza di creare strutture di governo a livello locale, regionale, nazionale e transnazionale per sostenere i propri interessi, la strategia lillipuziana tenta di fissare regole che proteggano gli interessi di coloro che sono minacciati dalla globalizzazione"12.

Note:

1 Jeremy Brecher, Tim Costello, "Contro il capitale globale. Strategie di resistenza", Feltrinelli 1996, p. 13
2 Jeremy Rifkin, "L'era dell'accesso. La rivoluzione della new economy", Mondadori 2000
3 cfr. Christian Marazzi, "Il posto dei calzini", Casagrande 1994: "Produzione snella, dunque, ed esternalizzazione dei costi sociali attraverso l'appalto. Si pensi, per fare un solo esempio, al ricorso a ditte private per la pulizia negli ospedali o nell'amministrazione pubblica. Ma c'è di più. Le imprese si stanno organizzando con tecniche e tecnologie nuove per rispondere in tempi brevissimi alle oscillazioni della domanda, alle richieste dei consumatori-clienti, alle variaizoni dei loro gusti. Si parla di produzione just in time (in tempo reale), ossia di una produzione che, per evitare di accumulare scorte eccessive (cioè merci invendute, destinate a deprezzarsi nel tempo), organizza il lavoro interno nel modo più flessibile possibile"
4 Jeremy Rifkin, op. cit., p. 7
5 Jeremy Rifkin, op. cit., p. 15
6 cfr. Pierangelo "Hobo" Rosati, Ludovic Prieur, "La production de sens contre les portails de la New Economy", in "Multitudes", n.2 maggio 2000 (trad. italiana): "Folle di impiegati statali, casalinghe e lavoratori più o meno precari, si incollano davanti al monitor per controllare l'andamento delle Borse di Wall Street, di Parigi o di Milano; affidano i loro risicati risparmi al sito web del gruppo finanziario on-line per investire nei magici titoli hi-tech, sperando nello stesso miracolo che, in altri tempi, avrebbero chiesto al lotto o alle slot-machines, ma stavolta sentendosi, nel loro piccolo, imprenditori della New Economy. Il vortice è travolgente. Basta creare un "portale" per essere quotati in Borsa, basta attrarre un numero sufficiente di visitatori per creare un'impresa miliardaria. Un "portale", la pagina di accoglienza in Internet di un navigatore tipo, è la sublimazione della produzione immateriale: raccoglie insieme ed organizza merci, anch'esse immateriali, prodotte da terzi, senza aggiungere ad esse alcun valore; notizie, curiosità, ricerche, segnalazioni, shopping, tutto insieme in questo imbuto virtuale attraverso cui vengono convogliati gli utenti/clienti, il cui numero rappresenta ricchezza"
7 cfr. Walter Benjamin, "Opere complete. IX. I 'passages' di Parigi", Einaudi 2000
8 Toni Negri, "Rivoluzione plein-air da Parigi a New York", in "Alias" anno 3 n.19, supplem. a "Il manifesto" del 13/05/2000
9 Christian Marazzi, "Le azioni del linguaggio", in "il Manifesto" del 26 maggio 2000
10 Ludovico Gardani, "Tutti a casa: la globalizzazione vista dalla Padania", in Limes n.1, 1997
11 Jeremy Rifkin, op. cit., pp. 17 - 18
12 Jeremy Brecher, Tim Costello, op. cit., p. 134