il manifesto - 12 Dicembre 1997

SAGGI

La sfida mortale dell'utopia tecnologica

PIERANGELO ROSATI (HOBO)

La velocità di fuga di cui parla Mark Dery, giornalista e autore di numerosi saggi sulla cultura cosiddetta "cyber", è quella necessaria a un corpo per sottrarsi all'orbita terrestre e liberarsi nello spazio; un'accelerazione che determina un punto di non ritorno verso l'infinito. Nel suo libro Velocità di fuga, cyberculture a fine millennio (Feltrinelli editore, pp. 365, L. . 50.000) Dery descrive i nascenti fenomeni culturali che fervono dietro le quinte della crescita tecnologica, dedicando particolare attenzione a quelle culture new-age che interpretano la mutazione post-industriale in chiave millenaristica e avventista. Dai cyber-hippies ai tecnopagani, ai mutanti post-organici, agli amanti del sesso virtuale, i frammenti di un'"era dell'informazione" sono così messi in mostra dall'autore, che sottolinea come la centralità assunta dalle varie tecnologie digitali consenta un loro uso inimmaginabile agli stessi progettisti, rendendo attuale la frase di William Gibson secondo la quale "la strada trova il proprio uso per le cose".

L'atteggiamento dell'autore rispetto alle realtà descritte è fortemente critico, quando non apertamente ostile. Il suo è un vero e proprio j'accuse contro le moderne mitologie dal sapore darwiniano che individuano nella tecnologia l'utero da cui nascerà la nuova specie di superuomini. Ma quella di Dery è anche un'analisi minuziosa e spietata di quelle subculture che riducono il concetto di libertà alla possibilità di evoluzione individuale in termini morfologici e genetici, piuttosto che in ambito sociale.

L'atavico trascendentalismo, espresso ricorrentemente nella storia in varie forme di ascetismo spiritualista o in più prosaiche ansie di superamento dei propri limiti, pare rinnovarsi in queste tendenze controculturali che sono accomunate dalla teorizzazione del possibile salto evolutivo di un'umanità divenuta, grazie alla tecnologia, capace di liberarsi definitivamente dalla schiavitù della forma-corpo. La frustrazione dell'"umano, troppo umano" si risolve così nell'utopia mortale del post-umano. Nascono così movimenti di pensiero, come quello di Hans Moravec, che, dopo la fine della storia, teorizza la fine dell'umanità, estremizzando un'indifferenza verso i fattori materiali che quotidianamente opprimono le nostre banali esistenze, in attesa del cosiddetto download finale, che dovrebbe consentire il trasferimento della coscienza umana nella memoria di una rete di computer e il definitivo abbandono del corpo fisico.

Anche le attitudini e i comportamenti indotti da questa "tecnoescatologia" riproducono in un certo senso, fra quelli che Dery definisce "primitivi postmoderni", i percorsi iniziatici di antiche tradizioni misteriche, proponendoli, piuttosto che nella direzione dell'umiliazione del corpo, in quella della reificazione, del meccanicismo totale. Dal principio di indeterminazione di Heisenberg nasce il fascino e la sensualità dell'oggetto che, sottraendosi alla misurazione e all'analisi della razionalità, genera una sorta di attrazione fatale verso l'inesplicabile. Per dirla con Jean Baudrillard "si può già parlare di un punto di non ritorno in cui non solo la posizione del soggetto analizzante è completamente sottoposta alla relatività e all'incertezza, ma in cui la supremazia è del tutto rovesciata: l'oggetto analizzato oggi trionfa ovunque, proprio attraverso la sua posizione di oggetto, sul soggetto dell'analisi". Tuttavia, questo processo di seduzione è amplificato e accelerato quando, con l'alta tecnologia, l'oggetto rimanda alla magia dell'oggettualità pura, liberatoria.

La conseguenza di tutto ciò, denuncia Dery, è il mito dell'uomo-macchina e della tecnodonna, che si incarna nei mondi allucinatori dei body-sculptors che mettono in scena, iperrealisticamente, lo stretto intreccio della tecnologia con le nostre vite attraverso innesti bio-meccanici e mutilazioni. Performaces artistiche che sono presentate come una rivolta nei confronti di un ordine permanente delle cose e, allo stesso tempo, un provocatorio atto di fede nell'ineludibilità del superamento di ogni limite imposto dalla condizione umana. Se il "nudo che scende le scale" di Duchamp esprimeva a suo tempo l'angoscia determinata dall'incubo della meccanizzazione dell'uomo costretto ad annullare la propria identità nell'alienazione della fabbrica fordista, oggi l'artista francese Orlan, con le sue opere fatte di interventi chirurgo-plastici sul proprio corpo, vuole rappresentare, all'opposto, il processo di straniamento catartico verso uno stato di coscienza superiore. "E' una lettura terribilmente sbagliata del mito di Icaro - conclude Mark Dery - che affida il nostro futuro ad ali fatte di cera e piume".